Per la serie “il sano cazzeggio” Vespa chiama Renzi: “Allora sto pellegrinaggio alla fine si fa o no?”.

Li avevamo lasciati così, nel lontano marzo 2014 con quella promessa di pellegrinaggio a Monte Senario.

Alla scadenza fissata per il mese di settembre l’eremo rimase lì in desolata attesa dello strillone-menestrello fiorentino (https://www.corriere.it/cronache/14_settembre_22/debiti-pa-polemica-non-cala-vespa-tutti-monte-senario-d9c263f6-4286-11e4-8cfb-eb1ef2f383c6.shtml).

Sono trascorsi “solo” 5 anni da allora e oggi apprendiamo che la Corte di Giustizia Europea ha condannato l’Italia per “mancato rispetto da parte delle pubbliche amministrazioni, nelle loro transazioni commerciali con le imprese private, di termini di pagamento non superiori a 30 o 60 giorni” (qui il comunicato stampa: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-01/cp200007it.pdf).

La sentenza accoglie il ricorso della Commissione Europea (http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=200844&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=3144228) presentato il 14 febbraio 2018.

Il testo integrale della sentenza (http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=222742&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=3144228) fornisce elementi utili alla comprensione del reale problema italiano.

La causa della condanna si evidenzia nel mancato controllo atto a far rientrare i pagamenti della P.A. nei tempi prescritti per legge. Dico questo perché, come ricorda la Corte, l’Italia ha recepito la normativa (punto 7) con decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192. Quello che manca è la capacità di far rispettare le leggi italiane, problema atavico. Anche i successivi interventi normativi non hanno sortito effetti.

Tra l’altro lo Stato italiano è implicitamente accusato di aver fornito dati errati riguardo il presunto miglioramento dei tempi di attesa dei pagamenti (punto 26). Ma qui va detto che l’Italia oppone l’accusa di aver male interpretato i dati rivolta alla Commissione. Insomma, questioni di lana caprina.

Nelle controdeduzioni (punti dal 26 al 36) l’Italia sottolinea come l’art. 4 della direttiva 2011/7 non imporrebbe, a suo dire, una inderogabilità di tempi tout court, ma di fatto lascerebbe aperto il campo alla compensazione dei ritardi prevedendo il pagamento di more ai creditori. Questo per me è il punto più deprimente della difesa in quanto stiamo dicendo che la P.A. italiana non paga in tempo, punto! poi eventualmente c’è la mora per “risarcire” i creditori… che nel frattempo possono anche fallire. Punto respinto al mittente nella sentenza.

Conclusa l’esposizione delle motivazioni la Corte ha sentenziato che:

Non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni.

Ora non resta che attendere la successiva mossa della Commissione che consiste nel chiedere la messa in mora della Repubblica italiana. Se non interviene e risolve l’Italia pagherà more ai creditori e more alla UE.

E intanto l’eremo è là che aspetta.

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